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L’ora di greco / Han Kang

Mentre avanziamo un passo dopo l'altro su una stretta trave da ginnasta, scartando coraggiosamente le conclusioni errate

L’ora di greco di Han Kang
“Mentre avanziamo un passo dopo l’altro su una stretta trave da ginnasta, scartando coraggiosamente le conclusioni errate, oltre la rete di sicurezza delle risposte che ci diamo vediamo ondeggiare il silenzio simile a uno specchio di acqua livido. Eppure, continuiamo a interrogarci e a darci delle risposte. Anche se i nostri occhi sono immersi nel silenzio, nella quiete minacciosa di quell’acqua livida che sale – e non cessa un istante di salire”.
Una poeta che non riesce più a parlare. Un insegnante di greco che sta perdendo la vista. Nell’essenzialità del silenzio l’incontro tra due anime sole.
Una lettura non semplice, che a tratti turba, un libro bellissimo sulla fragilità del nostro essere nel mondo. La parola è ciò che definisce e ci lega agli altri.  Han Kang è dolce e spietata allo stesso tempo.

La trama

In una Seoul rovente e febbrile, una don­na vestita di nero cerca di recuperare la parola che ha perso in seguito a una serie di traumi.
Le era già successo una prima volta, da adolescente, e allora era stato l’in­solito suono di una parola francese a scar­dinare il silenzio. Ora, di fronte al riaffio­rare di quel mutismo, si aggrappa alla ra­dicale estraneità del greco di Platone nel­la speranza di riappropriarsi della sua vo­ce. Nell’aula semideserta di un’accademia privata, il suo silenzio incontra lo sguardo velato dell’insegnante di greco, che sta per­dendo la vista e che, emigrato in Germa­nia da ragazzo e tornato a Seoul da qualche anno, sembra occupare uno spazio limina­le fra le due lingue.
Tra di loro nasce un’in­timità intessuta di penombra e di perdi­ta, grazie alla quale la donna riuscirà for­se a ritornare in contatto con il mondo. Scritto dopo La vegetariana e definito dal­ la stessa autrice «quasi un suo lieto fine», L’ora di greco si insinua − avvolto in un bozzolo di apparente semplicità − nella mente del lettore, come un «assurdo indimostra­bile», una voce limpida e familiare che ar­riva da un altro pianeta.
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